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VETRATE ARTISTICHE FIGURATE O ISTORIATE di Ettore Merkel (Vivere a Venezia, Luglio-Settembre 1999)

 PITTURE E TECNICA NELLA STORIA DELL'ARTE VETRARIA MURANESE

Definizione

Per vetrata artistica figurata o istoriata si intende un insieme organico di pezzi di vetri di vari colori, assemblati e tenuti insieme da listelli di piombo che, nel loro insieme, rappresentano figure o soggetti storici. Tale sorta di mosaico è poi incorniciato da un telaio e da rinforzi metallici fissati a loro volta agli stipiti delle finestre.

Esempi antichi e le fonti

I primi esempi di questo genere artistico sembrano risalire all'epoca carolingia e ottoniana. Si sono infatti rinvenuti a Lorsch, presso Darmstadt, a Wissembourg in Alsazia e a Magdeburgo alcuni frammenti di antichissime vetrate, opere tuttora di controversa datazione.

Il primo sostanziale sviluppo a livello europeo di questa tecnica artistica si ebbe però in Francia nel secolo XII, quando essa venne teorizzata intorno al 1100 dal prete Teofilo nella sua opera dal titolo Schedula Diversarum Artium, trattato che sarà ampiamente utilizzato e aggiornato dalla letteratura seguente.

In ambito italiano esiste una buona trattatistica antica sul l'argomento.

Si trascrive e si commenta qui in appendice il capitolo 171 del Libro dell'Arte di Cennino Cennini, allievo a Firenze di Agnolo Gaddi sul finire del Trecento.

Più dettagliato e aggiornato del precedente dal punto di vista tecnico è il capitolo 18 de Le Tecniche Artistiche di Giorgio Vasari (testo che nel suo insieme funge da prefazione alla seconda edizione delle Vite scritte dal celebre pittore e teorico aretino nel 1568), brano che si trascrive e si annota anch'esso in appendice. Il Vasari aveva appreso i segreti di questa tecnica dal francese Guglielmo de Marcillat, compositore e pittore di vetrate istoriate che si era trasferito stabilmente ad Arezzo ed era stato colui che per primo gli aveva insegnato i rudimenti dell'arte pittorica. Il Vasari nei suoi scritti distinse tuttavia con fatica i prodotti artistici riferibili a due periodi e scuole diverse: le vetrate coloratissime gotiche di origine transalpina (al suo tempo ormai tramontate), da quelle più sfumate, trasparenti e pittorico-disegnative diffuse anche in Italia nel corso del Cinquecento, corrente quest'ultima alla quale apparteneva anche la produzione del de Marcillat.

La tecnica

Essa consisteva, come ci riferiscono concordemente le fonti, nel delineare un determinato soggetto su di un cartone bianco o su di una tavoletta preparata, specificando i vari colori da dover essere impiegati nei singoli campi dai quali è costituita la composizione. Quindi il maestro vetraio o l'artista medesimo sceglieva le lastre di vetro colorato e le tagliava seguendo il disegno. I singoli pezzi di vetro, così ritagliati, venivano quindi assemblati fra loro provvisoriamente per essere dipinti con una tinta monocroma di color nero brunaceo adatta a simulare i contorni e le ombre delle figure, detta grisaille, ottenuta con l'impiego di ossidi metallici. I pezzi di vetro così ombreggiati e dipinti erano quindi introdotti una seconda volta nel forno per fissare il disegno e i colori. Estratti dal forno, raffreddati lentamente e ripuliti, i pezzi di vetro dipinti erano pronti per essere disposti su di un reticolo di righelli di piombo a doppio canale che li sigillavano fra loro costituendo in tal modo la forma della vetrata. Essa infine era montata su di una orditura portante, generalmente costituita da un robusto telaio di legno o di ferro munito di traversi, anch'essi in ferro, adatti a sostenerne il peso e a contrastarne nel tempo le inevitabili deformazioni. Questi ultimi, onde ovviare di ingerire troppo sulla resa estetica dell'immagine traslucida dipinta, venivano eseguiti spesso per linee ricurve adattate al singolo disegno raffigurato nella vetrata.

    Venezia. Gallerie dell'Accademia. S. Bartolomeo, vetrata     

 

Venezia, Gallerie dell'Accademia. S. Iacopo, vetrata

 

Origine delle vetrate

Come si è accennato la vetrata figurata e dipinta è un genere artistico che ha avuto sviluppo nell'Europa del nord. Esso è particolarmente adatto a decorare le spoglie e slanciate architetture delle cattedrali gotiche tedesche, francesi e inglesi. In Italia questa forma d'arte dalla componente mistica ebbe importanti sviluppi presso le chiese degli Ordini minori, ai cui dettami di povertà e modestia tutti gli edifici sacri erano improntati. In questo contesto le vetrate gotiche italiane, come quelle della cattedrale superiore di San Francesco in Assisi, pur denunciando apertamente la loro matrice d'oltralpe, partecipano appieno alla spiritualità degli Ordini mendicanti (francescani e domenicani).

Venezia, che continuava a produrre nelle fornaci di Murano vetri per mosaici, non sembra aver avuto in antico un ruolo fondamentale nell'arte del disegnare, comporre e dipingere vetrate figurate. La San Marco contariniana presenta infatti sulla facciata principale alcune aperture finestrate (facenti parte della struttura del portico aggiunta nell'arco del Duecento) costituite da grate marmoree traforate a fitti disegni geometrici o da lastre di marmo decorate da incrostazioni a tessere d'oro di analogo disegno. Si tratta di riprese e di elaborazioni tratte da un vasto repertorio di modelli bizantineggianti. Ben presto tuttavia cominciò ad affermarsi fra le lagune una vetrata composta da una o più serie vetri a rullo di forma circolare e di varie sfumature cromatiche, fra loro saldamente piombati. Questi dischi circolari, molto sottili e di bella trasparenza, vennero impiegati sin dai tempi antichi con adeguata piombatura di sostegno per costituire piccole e grandi vetrate di destinazione ecclesiastica, come riporta fedelmente Paolo Veneziano descrivendo l'abside della Basilica Marciana nell'episodio del ritrovamento del corpo di san Marco, facente parte della sua celebre Pala feriale (1345) custodita nel Museo Marciano. E' questo il tipo di vetrata che ben presto si diffonde negli edifici pubblici e in quelli privati della città. Si veda, ad esempio, per restare alla basilica di San Marco, il fornice centrale dell'ordine superiore della facciata (fine secolo XIV), il grande rosone sulla parete sud del transetto che venne realizzato su modelli d'oltralpe in probabile coincidenza con il rinnovamento della altrettanto grandiosa iconostasi (1395-97), e anche nel minuscolo rosone della cappella della Madonna dei Mascoli (1430 ca. ). Tale visione della vetrata in senso strutturale e geometrico, e quindi come negazione della potenzialità rappresentativa della sua superficie, è in contrasto con il concetto di vetrata figurata e istoriata. Quest'ultima venne infatti affermandosi progressivamente nel passaggio dallo stile romanico al gotico e nella cultura europea, man mano che le nuove tecniche costruttive riducevano le superfici murarie delle pareti ad una ininterrotta sequenza di pilastri e di esili membrature intervallate da superfici finestrate.

Al contrario nella Cappella Ducale la decorazione musiva a fondo oro costituisce quasi un ininterrotto tappeto decorativo adattato nel corso dei secoli a rivestire le spoglie membrature romaniche in mattoni dell'edificio. In questo caso alla vetrata spettava solo il compito di illuminare con discrezione tale Bibita pauperum, senza aggiungere nulla di concreto sul piano propriamente iconografico. Tuttavia anche a Venezia, seppure con qualche ritardo rispetto al gotico d'oltralpe e ad alcuni centri della penisola, si possono contare alcune eccezioni, come le vetrate figurate della chiesa domenicana dei SS. Giovanni e Paolo, e alcuni avanzi di quelle della basilica dei Frari e di Santa Maria dei Miracoli.

Si tratta di opere d'arte che, a causa della fragilità del materiale che le compone, sono giunte ai nostri giorni in stato di con¬servazione frammentario e non indenni da restauri. E' forse questo il motivo per cui esse non sono state sufficientemente studiate dalla letteratura, anche se non mancano i supporti storici e archivistici e sono suggestivi i confronti che si possono istituire con simili prodotti artistici.

Antichi documenti relativi all'arte vetraria muranese attestano già alla fine del Duecento la produzione veneziana di grandi quantità di vetro colorato per vetrate. La richiesta maggiore sembra provenire inizialmente dalle città di Firenze (chiesa di San Francesco), Roma, Assisi, ma anche Padova (basilica del Santo), Treviso, l'Istria e la Dalmazia. Nei documenti si nominano, per lo più, solo i maestri di fornace muranesi come produttori del materiale grezzo, e i luoghi di destinazione del prodotto. Non si menziona quasi mai l'esecutore delle vetrate, né l'artista ideatore: maestri che in certi casi coincidono nella stessa persona e in altri divergono.

Due sono pertanto gli interrogativi principali che si pongono per la vetratistica antica veneziana: esiste una tradizione di vetrate figurate veneziane in alternativa ai diffusissimi e ben noti vetri a rullo? E ancora, sono esistiti nei tempi antichi dei maestri veneziani ideatori e insieme esecutori di vetrate figurate?

Venezia, San Marco, Portale di S. Alipio vetrate marmoree.

 

 

 

Venezia, San Marco. Transetto, rosone

 

Venezia Chiesa dei Miracoli. Facciata, rosone

 

 Venezia, Chiesa dei Miracoli, vetrata

Venezia. Basilica dei Frari. Abside, vetrate

 

 

Venezia, Basilica dei Frari. Abside, vetrate

Venezia, SS Giovanni e Paolo, vetrata (part. )

 

 

Venezia, SS. Giovanni e Paolo. Transetto, vetrata

Le vetrate veneziane antiche

Come abbiamo accennato le fornaci dei maestri vetrai veneziani, detti "fioleri", producevano a Murano lastre di vetro trasparenti alla luce per oggetti e vetrate già sul finire del Duecento.

Il ciclo di lavorazione del vetro muranese, in generale, era fissato dagli statuti dell'Arte, sul finire del Trecento, dal 5 gennaio al 5 agosto di ogni anno, con una interruzione di cinque mesi in considerazione dei particolari disagi ai quali i maestri erano sottoposti. Nel Quattrocento la vacanza dal lavoro fu ridotta a circa tre mesi: dal 15 agosto alla metà di ottobre. Tuttavia il Maggior Consiglio aveva facoltà di concedere, a chi lo chiedesse per giuste ragioni, alcune deroghe a tale forzata interruzione lavorativa.

Infatti è già in deroga a queste disposizioni la prima testimonianza di lastre di vetro commissionate ai maestri vetrai di Murano dalla città di Ancona nel 1289 e nel 1305, materiale che si diceva utile alla costruzione di "fanali". Segue di pochi anni, anch'essa in deroga, una disposizione del Maggior Consiglio del 9 novembre 1318 con la quale si autorizzavano i maestri vetrai che lo volessero a riaprire le fornaci soltanto per lavorarvi alcune lastre di vetro utili per i frati minori di Assisi sino al valore di lire cento per ciascun proprietario di fornace.

Infatti alcune vetrate della basilica inferiore di San Francesco, come quella raffigurante San Giovanni Battista, furono composte e dipinte utilizzando materiale vetroso proveniente da Venezia.

Gli Ordini mendicanti sembra abbiano avuto un ruolo primario nella diffusione tecnica ed estetica di quest'arte che, almeno inizialmente, parrebbe fosse prerogativa di alcuni frati che, nel corso del loro itinerare per i conventi della penisola, contribuirono in larga misura a diffonderne la tecnica e i caratteri espressivi. Il governo veneziano, d'altro canto, vedeva di buon grado e favoriva tale produzione artistica, anche se essa richiedeva una certa strettezza nei tempi di produzione e di consegna. L'eccellente maestro vetraio Giovanni Deolai, in considerazione del livello qualitativo della sua produzione, aveva ottenuto dal Maggior Consiglio il 25 settembre 1317, quando risiedeva ancora in Murano, la concessione di tenere accesa la sua fornace anche durante il consueto periodo di vacanza stabilito per tutte le officine dell'isola. Tale concessione era strettamente personale e speciale perché concerneva solo la produzione dei cosiddetti "smalti", cioè dei vetri colorati per le vetrate. Quando poi egli nel 1321 si trasferì a Venezia nella contrada dei S.S. Apostoli, tale licenza gli venne rinnovata. Infine il 4 novembre 1330 allo stesso maestro vetraio - evidentemente affaticato dal duro lavoro e dall'età- si accordavano come collaboratori altri due maestri. Questi ultimi, per lasciare memoria di tale speciale concessione, avrebbero dovuto iscriversi alla Camera della Giustizia Vecchia (organo di controllo sulle Arti) dichiarando di volersi applicare solo a questo genere di produzione del vetro.

Il miglior vetro colorato per vetrate che si eseguiva agli inizi del Trecento a Venezia usciva dunque dalla fornace del maestro Giovanni Deolai, sita nella contrada dei SS. Apostoli. Tale concessione valse all'artista per tutta la durata della sua vita. Venuta poi a mancare la produzione per probabile malattia del titolare, i figli Donato e Guglielmo dovettero rinnovare la richiesta del padre al Maggior Consiglio che il 4 marzo 1333 concedeva loro una licenza provvisoria in tal senso per la durata di un mese, al fine di poter soddisfare una commissione fiorentina a favore della cappella di San Nicolò che la Corporazione degli Acciaiuoli stava erigendo allora in Firenze. Alla morte di Giovanni (27 maggio 1333) la licenza fu confermata definitivamente ai figli Donato e Guglielmo Deolai, che tennero la stessa fornace insieme a due collaboratori.

Nell'arco del secolo XIV la diffusione dell'arte vetratistica in Italia raggiunge quel livello di capillarità che nei paesi d'oltralpe aveva caratterizzato già gran parte del secolo precedente, come testimoniano svariati documenti relativi alle città di Siena, Genova, Bologna, Orvieto, Firenze e Napoli. Anche Venezia partecipa attivamente al fenomeno, come attestano molti documenti, ma è molto difficile valutarne la portata e i caratteri per la perdita di gran parte dei manufatti artistici. Rimane infatti notizia del monaco camaldolese Lodovico da Imola che, trasferendosi nel 1366 dal convento di San Mattia di Murano a quello di San Michele in Isola, recava con sé i suoi attrezzi utili per costruire finestre di vetro. Nella perdita della maggior parte delle opere, valgono a illustrare il diffondersi capillare di questa produzione artistica alcuni documenti significativi per Venezia, rapportati anche ad altri che riguardano altre città della penisola.

Il comune di Assisi nel 1330 era costretto a emanare divieti volti a proteggere le vetrate della chiesa di San Francesco e di Santa Chiara da atti vandalici. Il 17 novembre 1368 il Maggior Consiglio veneziano promulgava un analogo divieto di tirare con l'arco contro le "finestre di vetro" - purtroppo non altrimenti indicate nel documento - ma che dunque a quella data dovevano già essere piuttosto diffuse fra le lagune. I documenti archivistici, sondati dalla trattatistica sette e ottocentesca, ma ampliati e riscontrali nella ricerca capillare di Luigi Zecchili, conducono anche al nome di alcuni maestri vetratisti attivi a Venezia. E' il caso di un pater Theotonicus dei Minori di Santa Maria dei Frari che nel 1335 aveva eseguito a Venezia alcune finestre vitree, giudicate molto belle dal notaio Oliviero Forzetta. per la stesso edificio francescano, servendosi della collaborazione del pittore Marco da Venezia, artista quest'ultimo che la critica suole identificare nel fratello maggiore del celebre Paolo Veneziano. La produzione di questa bottega artistica si estendeva nello stesso anno alla chiesa di San Francesco a Treviso, città che conserva ancor oggi nella chiesa di San Nicolò, seppure manomessa da restauri del 1505-10 circa, una vetrata proto-trecentesca in forma di rosone con la Crocifissione. Anche l'abside maggiore della Basilica dei Frari conserva oggi alcune vetrate dipinte: figure a mezzo busto di santi entro poli lobi e molivi geometrici nell'ordine superiore; episodi della vita di san Francesco e sant'Antonio da Padova al centro di quello inferiore. Per quanto si possa giudicare molto poco dalla distanza, le prime mantengono solo la parvenza delle vetrate originali trecentesche che è memoria venissero compromesse alla fine dell'Ottocento da un uragano, forse lo stesso che lesionò gravemente il rosone della chiesa dei Miracoli. La somiglianza di carattere tecnico e artistico fra le integrazioni delle vetrate superiori figurate dell'abside centrale dei Frari con quelle tardo-trecentesche già poste nelle absidi minori ai Santi Giovanni e Paolo suggerisce che anche il primo intervento sia stato eseguito alla fine dell'Ottocento sotto la direzione di Mariano Fortuny. Invece il settore inferiore, ai lati della pala dell'Assunta, propone alcuni soggetti di iconografia francescana dipinti in color seppia su vetro chiaro e traslucido nel 1907 dal vetratista milanese Giovanni Beltrami, che nel 1900 aveva costituito una manifattura artistica per vetrate, assieme ai pittori Buffa, Cantinotti e Zuccaro, con finalità prettamente illustrative, che si ispirano allo stile Liberty e contrastano vistosamente con i precedenti indirizzi della tradizione veneziana.

La straordinaria diffusione dell'arte della vetrata in Europa per tutto Parco del Trecento fece sorgere ben presto altre botteghe veneziane concorrenti rispetto ai vetratisti d'oltralpe, che inizialmente mantenevano il primato tecnico-espressivo dell'arie. Rimane infatti traccia di un vetratista veneziano di nome Vittore dai Sandri, o Alixandrii, morto nel 1371. il cui figlio Tommasino era pagato nel 1376 per aver eseguito una finestra di vetri colorati per la Basilica del Santo a Padova (che ne contava altre otto di analoghe), prima di essere chiamato nel 1400 a collaborare alle vetrate del duomo di Milano, lavoro quest'ultimo continuato da certo maestro Nicolò da Venezia e da numerosi altri maestri italiani e stranieri nei secoli successivi.

I Domenicani, che avevano edificato la loro chiesa dei SS. Giovanni e Paolo con spirito di emulazione nei confronti della basilica francescana, non furono certo da meno di questi ultimi nel procurarsi per la loro grande basilica alcune vetrate figurate. Diversamente l'edilizia veneziana ufficiale si manteneva fedele al geometrismo strutturale dei piombi e ai vetri ora trasparenti, ora dai colori delicatamente sfumati che potevano offrire le vetrate a rullo costituite dai cosiddetti "occhi di bue" o "rui". Fra le poche eccezioni in tal senso un documento del 1553 annovera una vetrata raffigurante San Marco, eseguita in vetro "intagliato di piastre... dì colori" per la Libreria Marciana.

Sono attribuite alla cerchia di Lorenzo Veneziano (notizie 1356-72) le 8 vetrate figurate, già nelle absidi minori della basilica dei SS. Giovanni e Paolo. 6 delle quali sono adattate alle finestre ogivali della ex chiesa della Carità, oggi sede delie Gallerie dell'Accademia. Il loro stato lacunoso, dovuto alla rimozione dal sito del 1873, al restauro del 1895 e all'adattamento nell'anno seguente, quando 2 furono concesse in deposito al Museo vetrario di Murano, consente pure qualche approfondimento su quella che è la prima testimonianza sulla vetratistica di figura presente a Venezia.

Si tratta, come indicano le iscrizioni in carattere gotico che si accompagnano alle singole figure, della serie incompleta di sette apostoli: Tommaso. Bartolomeo, Iacopo, Andrea, Taddeo, Simone e un altro apostolo, alla quale si aggiunge una più piccola vetrata raffigurante la Deposizione dalla croce. Tenuto conto che esse presentano uno stile gotico ormai maturo e che vennero tolte alla decorazione delle absidi minori dell'edificio, settore che per la parte scultorea si completava verso il 1385 in stretta successione temporale rispetto al presbiterio, ritengo appropriata per esse una datazione di massi-ma intorno al 1390. Quanto all'analisi stilistica delle parti più significative delle vetrate che ci sono rimaste, come ad esempio il San Giacomo, il San Bartolomeo e il San Tommaso -quest'ultimo dal tre quarti del volto simile a quello della figura precedente -, si possono osservare puntuali tangenze con le opere che si attribuiscono all'attività giovanile di Nicolò di Pietro (notizie 1394 - post 1430). Invece gli elementi iconografici di complemento alle singole figure: il motivo dell'acanto disteso con le bacche sui capitelli, e i nastri che avvolgono in spirali di serpente le esili colonnine che li sostengono, si ritrovano molto simili nella produzione di un frescante e miniatore contemporaneo quale Andrea di Bartolo. Non credo di fantasticare eccessivamente se affermo che la data indicativa del 1390 assieme agli esiti stilisti esaminati conducono ad attribuire questo testo unico e fondamentale della vetrata veneziana del Trecento ad un pittore e vetratista veneziano di rilievo, concorrente rispetto ai Deolai dei quali abbiamo parlato, che identifico tentativamente in quel Pietro di Nicolò, "pittore di santi", ricordato solo in alcuni documenti della seconda metà del Trecento e padre, appunto, del più noto pittore Nicolò di Pietro.

Anche la vetrata veneziana che raffigura la Deposizione dalla croce, e che faceva parte della stessa serie, sembra conforme agli ultimi anni del Trecento, per quel poco che si può giudicare dal punto di vista della iconografia.

Dal punto di vista della tecnica queste vetrate figurate veneziane presentano colori accesi, specie nel giallo-bruno e nel rosso, con marcati interventi pittorici a delineare il disegno e l'espressione dei volti. Ne risultano a tratti zone scure e poco permeabili dalla luce, dati che forse giustificano la preferenza accordata dai fiorentini per le vetrate alle lastre di produzione tedesca che non erano colorate in tutta la massa vetrosa come le veneziane, ma solo incamiciate di colore sopra una base vetrosa lucida e trasparente. Tale tecnica - ben nota ai maestri veneziani che rivestivano invece con un sottile strato di vetro cristallino, detto "cartellina", le piastre musive colorate per proteggere la foglia d'oro - non ebbe impiego a Murano finché il vetraio Giorgio Ballarin non ottenne nel 1492 dal Senato veneziano di poter lavorare il vetro per le vetrate in società con tal Roberto "Lothoringiese", detto il Franzoso, figlio di certo Giovanni di Tisano. Egli apprese così come si ottenevano effetti cromatici più chiari e luminosi, specie nel color rosso ricavato da un soffio di vetro al rame incamiciato solo da un lato della lastra con vetro incolore e trasparente. Non sappiamo con certezza quali siano le vetrate veneziane figurate uscite da questo sodalizio tecnico e artistico, ma sembra che proprio in quegli anni l'arte delle vetrata a Venezia sia rifiorita anche per merito degli apporti di altri maestri di origine e formazione bolognese e lombarda. Si è supposto infatti che non sia estranea al loro intervento almeno una parte della realizzazione della grande vetrata sulla parete di fondo del braccio destro del transetto della chiesa dei SS. Giovanni e Paolo, opera oltremodo complessa e frutto di un lavoro collettivo sul quale ci soffermeremo, proponendone per intanto una datazione di massima fra il 1490 e il 1515 in accordo con i dati documentari che la riguardano. La sua ideazione e la sua esecuzione dovette coprire un lungo arco di tempo a cavaliere dei due secoli con una interruzione dei lavori a causa della guerra di Venezia contro la Lega di Cambray.

Al 1490 circa datano anche le due piccole vetrate della chiesa di Santa Maria dei Miracoli, edificio costruito da Pietro e Tullio Lombardo fra il 1481 e il 1489. Nell'equipe dei Lombardo, della quale fa parte anche lo scultore di origine greca Giorgio Lascaris detto il Pirgoteles, figurano anche i vetratisti bolognesi Domenico e Giacomo Cabriti] che avevano operato dal 1460 in Bologna nelle vetrate della chiesa di San Petronio e di San Giovanni in Monte. In quest'ultimo edificio essi eseguirono nel 1467 una vetrata raffigurante la Madonna in trono con il Bambino e angeli, su disegno del pittore ferrarese Francesco del Cossa. Pochi anni dopo, nel 1482, gli stessi fratelli Cabrini realizzarono per il medesimo edificio e su cartone dello stesso pittore un'altra vetrata avente per soggetto San Giovanni a Palmas. La prima di queste vetrate, appena variata nella forma rotonda da rettangolare e in qualche dato accessorio del paesaggio, fu replicata, più di vent'anni dopo la prima stesura, per il rosone centrale della facciata della chiesa veneziana. Danneggiata a causa di un violento temporale nel 1862, essa fu restaurata assieme alle vetrate trecentesche già nella chiesa dei SS. Giovanni e Paolo nel 1895 da Domenico Bassani sotto la direzione di Mariano Fortuny con l'aggiunta di vetri trasparenti nelle zone originali mancanti. Essa è di proprietà delle Gallerie dell'Accademia che l'hanno concessa in deposito al Museo vetrario di Murano dal 1949. Rimane invece ancora nel sito originale, al centro del tamburo della cupola, una seconda vetrata con il Cristo passo, anch'essa opera degli stessi vetratisti Cabrini. ugualmente riferibile all'ideazione dello stesso maestro ferrarese tanto appare eccentrica rispetto agli analoghi e coevi soggetti in voga a Venezia nelle botteghe dei Vivarini e di Lazzaro Bastiani.

Giungiamo attraverso queste realizzazioni al prodotto più alto e impegnativo nell'arte della vetrata antica figurata di ambito veneziano: quella della chiesa dei SS. Giovanni e Paolo. Come sovente accade in opere d'arte che sono il frutto piuttosto ibrido di una processualità artistica durata a lungo e dovuta a diversi artisti ideatori e maestri esecutori, la critica in essa ha enfatizzato ora l'aspetto ideativo iniziale che si lega all'opera di Bartolomeo Vivarini e del nipote Alvise, ora quello conclusivo dovuto ai pittori di vetrate Girolamo Mocetto e Giovanni Antonio Licinio da Lodi, artisti che nel settore inferiore di essa si sono ispirati a modelli figurativi prossimi più allo stile di Vittore Carpaccio che al repertorio belliniano e cimesco. Mentre dunque a concludere l'impresa iniziala a partire dall'alto verso il 1490 fu di ostacolo la crisi economica e politica di uno Stato minacciato nella stessa sua sopravvivenza dal 1507 al 1511, solo dopo quest'ultima data dovette essere completato il registro inferiore della vetrata sulla quale si legge a sinistra una tabella che reca la firma di Girolamo Mocetto. Si tratta di una figura di artista eclettico e sfuggente. Egli appartiene a una famiglia di maestri vetrai operosi a Murano nell'arco di tutto il Quattrocento, ma è anche diligente pittore, frescante e incisore su rame.

Le puntuali ricerche d'archivio di Luigi Zecchili hanno dimostrato che egli dovette nascere verso il 1470, mentre la data del 1531 coincide con quella della morte. E' sua la pala (firmala) che raffigura la Madonna in trono con il Bambino e santi del 1517 nella chiesa di Santa Maria in Organo a Verona. Si tratta di un'opera di un artista stilisticamente ritardatario e che compendia la cultura belliniana e carpaccesca soffermandosi a sottolineare alcuni particolari naturalistici, descritti meticolosamente come nella vetrata veneziana. Senza nulla togliere all'ideazione vivarinesca dei registri superiori e di quello centrale, si potrebbe supporre che il Mocetto, figlio di una avviala famiglia di vetrai muranesi, si sia formato sui vent'anni prima come esecutore di una parte dei settori superiori della vetrata e che quindi, ripreso il lavoro forzatamente interrotto nel secondo decennio del Cinquecento, sia stato incaricato, in base alla sua esperienza precedente sull'opera stessa, di completare l'impresa anche dal punto di vista dell'ideazione. Più difficile circoscrivere in questa seconda fase l'opera di Giovanni Antonio Licinio da Lodi da quella del citato Girolamo Mocetto, ma se si legge nei passi del Sanudo che fu decretato il saldo del suo lavoro nel 1510 e nel 1515, non si potrà che convenire sul fatto che egli abbia sostenuto il ruolo di attivo collaboratore del maestro muranese. L'opera, per quello che oggi se ne può giudicare, è stata oggetto di numerose perdite di frammenti e di restauri consistiti soprattutto nella revisione delle piombature e nel rifacimento delle armature metalliche di sostegno. Il primo di questi interventi che ci sia stato documentato è quello del 1702, ad opera di frate Martino Mattei. Nel 1814 fu quindi la volta del "finestraio" Andrea Meduna, come dichiara una iscrizione alla base della figura di san Pietro. Nel 1904 fu steso un accurato progetto di restauro da Guido Bertini, che tuttavia si astenne dall'operare direttamente lasciando l'intervento nel 1907-08 al milanese Giovanni Beltrami. Quest'ultimo apportò all'opera caute e limitate integrazioni di carattere disegnativo e pittorico intervenendo anche con ritocchi a freddo sulle lastre antiche limitatamente alle lacune del colore. Il 18 settembre 1910 Giulio Cantalamessa collaudava il restauro del Beltrami che è durato sino al 1981-82, data quest'ultima dell'ultimo intervento effettuato da Ottorino Nonfarmale sotto la direzione della Soprintendenza per i Beni Ambientali e Architettonici di Venezia. Per la più specifica problematica storico-artistica e tecnica dell'opera d'arte, esaminata nei suoi vari aspetti interdisciplinari in quest'ultima circostanza, si vedano il catalogo della mostra, tenutasi in Palazzo Ducale, dal titolo: La grande vetrata di San Giovanni e Paolo. Storia, iconologia, restauro, Venezia 1982, e il lucido saggio di L. PUPPI, La grande vetrata della basilica dei santi Giovanni e Paolo, Venezia 1985 (con bibl. precedente).

Oltre alle vetrate tardo-ottocentesche, che oggi prendono il posto nelle finestre delle absidi di quelle oggi conservate nelle Gallerie dell'Accademia, la basilica domenicana possiede altre vetrate talmente rimaneggiate da non permettere un sicuro giudizio come, ad esempio quella raffigurante un Leone marciano andante, posto al centro del rosone soprastante l'ingresso della cappella del Rosario. L'iconografia consueta del simbolo marciano è accompagnata negli angoli da quattro angioletti dipinti su vetro che, per quanto si giudica dalla distanza, potrebbero essere di fattura più antica e frutto di reimpiego. Agli inizi del Cinquecento l'arte muranese della vetrata figurata subisce non solo un grave appannamento, ma vede improvvisamente una brusca interruzione. Non sappiamo se ne fosse complice maggiormente il giudizio poco benevolo del Vasari nei confronti delle materie prime di produzione veneziana che la censura per le lastre di fabbricazione veneziana da parte del maestro Guglielmo de Marci Hat, affermato vetratista in Arezzo e primo educatore alla pittura del grande propagandatore del "Manierismo". D'altro canto è intuitivo che la straordinaria diffusione dell'arte dell'affresco tanto all'esterno che all'interno degli edifici veneziani dovette contribuire non poco al tramonto dell'arte della vetrata figurata fra le lagune venete. Nondimeno si continuavano a produrre a Murano i tradizionali "occhi di bue" per vetrate di struttura e di concezione più semplice e geometrica, decorazione comune agli edifici religiosi e ai palazzi, come è possibile ancora oggi riscontrare in alcuni esempi che ci sono rimasti.

A Fuga - Cartone per vetrata.

 

A. Fuga. Vetrata con vetri a rilievo, graniglie colorate, smalti e oro, vetri soffiati a bocca, policromi e non (cm 138 x 73, 5). "Colombina". 1968. (Collezione privata).

A. Fuga. Processione liturgica, vetrata. Murano, chiesa di San Pietro Martire.

 

Manifesto della mostra di A. Fuga in occasione del 20° Anniversario della rivista.

 

La vetrata veneziana moderna

Come abbiamo detto, l'arte della vetrata figurata e di quella istoriata è molto complessa e richiede per una corretta esecuzione la padronanza di svariate tecniche artistiche, insieme a quella delle davvero infinite risorse che la lavorazione artistica del vetro può offrire a chi la affronta con creatività ed esperienza. Ma il problema fondamentale che determina la genesi e, in ultima analisi, la qualità artistica e tecnica di una vetrata è sempre consistito nel corretto rapporto fra ideazione (disegno e cartone) e traduzione (fusione e composizione delle lastre, dipintura su vetro, ricottura, piombatura e montaggio in opera). E' molto raro, anche nei casi più antichi di vetrate figurate, che tutte le operazioni fondamentali alla loro costruzione e che abbiamo sommariamente elencato siano state svolte da un unico artista, seppure coadiuvato dalla bottega. Si danno invece i casi di famosi pittori che hanno realizzato modelli pregevolissimi che nella traduzione successiva, spesso dovuta a mediocri maestri vetratisti, hanno perduto gran parte dei caratteri distintivi della loro ideazione. Sono altrettanto frequenti, d'altro canto, i casi di eccellenti artigiani del vetro che hanno eseguito straordinarie vetrate dal punto di vista tecnico, opere che tuttavia sono carenti dal punto di vista del disegno.

Uno dei pochi artisti di questo secolo che ha saputo contemperare nelle sue vetrate la ricerca rigorosa dell'aspetto progettuale e l'opera paziente e creativa nelle varie fasi della sua costruzione è il muranese Anzolo Fuga (Murano 1914 - 1998). Figlio d'arte da molte generazioni, anche se il padre Emilio si dilettò di compilazioni erudite su illustri personaggi di origine muranese producendo anche nel 1953 una appassionata Guida dell'isola di Murano, ebbe le prime sollecitazioni ad occuparsi dell'arte della vetrata quando gli capitò di osservare, ancora ragazzo, alcuni esempi di vetrata Jugendstil prodotte dalla ditta Giacomo Cappellin per l'allestimento di un negozio della medesima. Di queste vetrate fa parte il Canestro di frutta, oggi custodito nei depositi del Museo vetrario di Murano. Intervenuto poi il fallimento della ditta Cappellin, i primi esperimenti concreti nel campo della vetrata furono compiuti dal Fuga, come egli stesso ebbe più volte a dichiarare agli allievi della Scuola d'Arte abate Vincenzo Zanetti, utilizzando allo scopo alcune lastre di vetro colorato di poco spessore e di bella trasparenza che erano rimaste accantonate nei magazzini di questa ditta. Si trattava, per lo più, di soggetti semplici e stilizzati nei quali aveva parte rilevante l'aspetto grafico e progettuale.

Su questa linea di ricerca e di tendenze culturali si pone l'incontro formativo presso l'Accademia veneziana con il grafico e illustratore torinese Guido Balsamo Stella. Quest'ultimo, che si era formato all'estero, presso le accademie di Monaco e di Stoccolma, insegnò al Fuga a prediligere nel disegno i dettami più sobri della corrente espressionista tedesca suggerendogli l'uso del rotino e della mola per incidere piccole e svelte silhouette sulle superfici trasparenti di vetro soffiato. Si tratta dei cosiddetti "vetri chimici", incisi con la collaborazione di Franz Pelzel, che Balsamo Stella espose con successo di pubblico e della critica nella Triennale di Monza del 1930. L'opera creativa di Balsamo Stella costituì dunque il primo modello artistico. In seguito l'artista muranese avrebbe mutuato dal suo maestro anche la generosa e infaticabile propensione per l'insegnamento. Infatti, dopo aver rinnovato la Scuola di Scultura di Ortisei e Selva di Valgardena, il Balsamo Stella era passato a insegnare nella Scuola d'Arte industriale "Pietro Selvatico" di Padova e quindi presso l'Istituto superiore delle Arti Decorative di Monza per concludere infine la sua carriera didattica a Venezia come insegnate di decorazione del libro nell'Istituto statale d'Arte (1936-41). Anzolo Fuga dedicò invece gran parte delle sue energie creative agli allievi della Scuola di Disegno per Maestri Vetrai, istituzione fondata dall'abate Vincenzo Zanetti presso il Museo civico Vetrario di Murano nel lontano 1862. Compito primario dell'istituto muranese era quello di fornire ai futuri maestri solide basi tecniche e artistiche nei vari settori dell'arte vetraria. Sono convinto che l'aspetto della comunicazione verbale e per immagini del proprio messaggio artistico, insieme a quello del laboratorio didattico, come esperienza nell'uso delle diverse tecniche artistiche, fossero aspetti complementari ed entrambi centrali nel fare artistico del nostro vetratista muranese.

La produzione delle vetrate di Anzolo Fuga e mollo vasta e conta soggetti di carattere religioso e temi di carattere profano, ma l'artista si è cimentato anche in soggetti naturalistici come nature morte e paesaggi, e nella copia da vetrate antiche. L'ispirazione dell'artista è molto vasta poiché assimila spunti inventivi tratti da gran parte della produzione di vetrate figurate e istoriate antiche e moderne a livello internazionale. Tra i maestri che egli ha voluto maggiormente considerare come esempio stilistico per il disegno delle sue vetrate indicherei Pablo Picasso, Virgilio Guidi e Amedeo Modigliani, ma sono infiniti gli spunti dall'opera di altri artisti che si possono leg gere a tratti nelle sue opere, non senza che il nostro artista abbia contribuito con la sua inventiva personale a trasformare e far proprio il modello.

Nelle vetrate a soggetto sacro non mancano spunti tratti dallo Spiritualismo inglese preraffaellita di William Morris e Bum Jones, dal Simbolismo franco-fiammingo (Maurice Denis pelle vetrate della cattedrale di Friburgo e di Ginevra (1917), e Georges Desvallières, ideatore quest'ultimo nel 1927 delle vetrate dell'Ossario di Douaumont presso Verdun). Per quanto concerne gli aspetti della tecnica, egli ha affinato le risorse tradizionali del vetro di Murano senza per altro ignorare taluni esperimenti propri degli artisti della Scuola di Nancy. In seguito il nostro volle ispirarsi nella sue vetrate religiose alla produzione di artisti francesi come: Henri Matisse, Fernand Léger, Georges Braque, Henry Rouault, Marc Chagall, Jacques Villon, fratello di Marcel Duchamp, Marcel Gromaire e Alfred Manessier.

Più che alla ricerca astratta di atmosfere ambientali "moderne", prefigurate da Matisse nelle vetrate bianche disegnate di nero per la Cappella del Rosario dei Domenicani di Vence (1948-50), l'interesse si è rivolto a individuare la corrispondenza tra i contenuti della spiritualità moderna e la presentazione di nuovi effetti cromatico-luministici. Le vetrate con episodi della passione di Cristo di Fernand Léger nella chiesa di Audincourt ( 1951 ) costituiscono un capolavoro ben difficilmente eguagliabile nella ricerca espressiva della quale si è detto, i cui risultati sono stati a lungo meditati dal nostro maestro muranese.

Datano ancora al 1953-54 tanto le vetrate dello stesso Léger per la chiesa svizzera di Cuorfaivre che quelle di Georges Braque per la chiesetta di Varengeville-sur-Mer, villaggio sulla manica scelto dall'artista come dimora estiva. Del resto non è del tutto estraneo all'arte del Fuga nemmeno il cupo realismo che presenta l'opera di Georges Rouault: quel cupo ritagliare le forme con contorni grossi e irregolari di nero assoluto, tecnica che da sola dichiara che la formazione dell'artista francese avvenne come allievo di un pittore di vetrate e quindi, intorno al 1880, come restauratore di antiche vetrate medievali.

Anzolo Fuga rappresenta un diverso approccio alla vetrata rispetto a Marc Chagall. Il maestro muranese con pochi interventi di carattere grafico e con profondo rispetto per la materia e i caratteri del vetro, mantiene la trasparenza e il colore della lastra. L'artista russo, al contrario, sfrutta le lastre come semplice supporto del proprio intervento e ottiene gli effetti pittorici desiderati con largo impiego di colore e macchie di ossidi. Anch'egli. come il nostro si è cimentato in vetrate istoriate destinate alla religione cattolica (Cattedrale di Metz, 1959-60), ma anche in altri soggetti richiesti dalla comunità ebraica di Gerusalemme (Sinagoga dell'ospedale dell'Hadassah a Ein-Karem, 1961).

La produzione del nostro maestro muranese ha conosciuto, seppure meno assiduamente, altri generi artistici come quello della preziosa trasposizione su vetro delle icone bizantine e veneto-cretesi, il disegno di alcuni lampadari molto semplici e stilizzati, e una quindicina di serie "ironiche" di bicchieri (sottile vetro multicolore iridescente, animato da figure e soggetti stilizzati incisi e decorati a rilievo sulla superficie) nei quali riaffiora l'esperienza maturata da giovane con Guido Balsamo Stella.

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